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    Colori puri

 

     Queste non sono foto consuete, anzi, magari per qualcuno saranno anche brutte: macchie colorate senza un soggetto, senza una forma… però hanno una storia singolare di cui fui protagonista, e che rivelo solo ora dopo quasi quarant'anni:

 

RedLaserBeam
I raggi di un tipico laser in luce rossa, più o meno quello che vedevamo sempre durante i nostri esperimenti

Una tesina dimenticata

     Durante il penultimo anno di Ingegneria Elettronica, al Politecnico di Torino, ho frequentato con altri "carbonari" (nel senso di… quattro gatti: quella materia non era fra le più considerate, né lo è tuttora…) il corso di Complementi di Campi Elettromagnetici, il cui nome, da solo, bastava per allontanare gran parte degli studenti. Non voglio certo descriverlo qui, ora… quello che invece voglio ricordare è che nell'ambito di quel corso era prevista la produzione di una "tesina", che poteva essere teorica o sperimentale.

     Avendo già avuto a che fare con altre temibili "tesine teoriche" (in realtà riassunti di articoli tecnici pieni di una matematica resa volutamente incomprensibile, dato che gli autori volevano farsi pubblicità, ma senza regalare agli altri le loro scoperte), io ed il mio "socio" di allora, con cui condividevo tutti gli esami, ci buttammo senza alcuna esitazione su quella sperimentale, che si rivelò molto interessante: si trattava di verificare sperimentalmente i principi dell'olografia(*), producendo in laboratorio uno o più ologrammi funzionanti.

     Non starò a descrivere tutto il processo (che fra l'altro, anche se con qualche difficoltà, riuscì perfettamente(**)), ma era sicuramente un bel diversivo dal passare le giornate su astruse formule delle quali non capivamo l'utilità: trafficavamo con un laser a luce rossa, in un laboratorio seminterrato lontanissimo dalle aule affollate, montando specchi e lenti su un pesantissimo banco di prova di granito (che avevamo dovuto montare - letteralmente: viti e bulloni... - noi stessi all'inizio dell'attività…) e ci sentivamo quasi dei veri ricercatori…

  (*) per chi fosse interessato, ho trovato in rete queste dispense sull'olografia, che ne offrono un buon riassunto sia teorico che pratico

(**) perfettamente sì, ma anche grazie ad ingegnosi espedienti che fu necessario inventarsi per evitare insuccessi garantiti: l’olografia è in pratica la registrazione delle frange di diffrazione fra diverse sorgenti laser (nel nostro caso, due fasci, ottenuti dividendo il raggio dell’unico laser in due, tramite uno splitter ottico, nome altisonante per uno specchietto semitrasparente…). La registrazione di queste frange, o meglio della figura di interferenza fra due onde (i fasci laser), che hanno dimensioni microscopiche, richiede una notevole risoluzione da parte della gelatina sensibile, e di precisione del fascio luminoso. In parole povere, l’esperimento deve essere condotto in un ambiente perfettamente immobile. Infatti il piano su cui fissavamo le lenti ed altri dispositivi ottici era una spessa lastra di granito. Però scoprimmo subito dopo che quel che non era stabile era… il laboratorio! Infatti, il nostro stanzone era sotterraneo e si trovava fin troppo vicino ai binari della ferrovia, che allora nell’area del Politecnico passava “in trincea” (oggi invece è completamente in sotterranea): sentimmo vibrare in modo preoccupante, e dopo pochi minuti ancora, poi ancora (intorno a Torino c’è un gran traffico…). Dato che le registrazioni degli ologrammi duravano parecchio (non ricordo bene, ma a causa della poca luce rossa richiedevano tempi intorno al minuto, forse), se fosse passato un treno durante l’esposizione della lastra olografica, la figura di interferenza sarebbe stata così disturbata dalle vibrazioni ambientali da risultare inutilizzabile.

Ed ecco quindi la necessità di trovare una soluzione, e l’ideazione dell’espediente: uno studio accurato… dell’orario ferroviario dell’area torinese, per riuscire a trovare una “finestra stabile” di qualche minuto, in cui registrare gli ologrammi. Il bello è che ha pure funzionato!

(nota aggiunta dopo aver risentito uno dei due “compagni di tesina” di allora, che mi ha subito rinfrescato l’episodio, di cui io - 38 anni dopo - mi ero totalmente dimenticato. Ma c’è un motivo: il “divinatore di orari”… era lui!)

 

 

RedHologram
Un ologramma in luce rossa, molto simile a quelli ottenuti al termine della nostra tesina sperimentale

Realizzare ologrammi

     Racconto tutto questo non per far vedere qui quegli ologrammi (magari…), che non ho mai potuto tenere e che non sarebbero certo stati semplici da fotografare, essendo forme eteree e rossastre visibili solamente se illuminate da un laser identico, fantasmi appena visibili nella quasi completa oscurità del laboratorio; è solo la dovuta premessa per spiegare che, per arrivare a produrre gli ologrammi, dovemmo passare parecchie settimane in quel posto remoto, vincendo (per stanchezza) le paure dei professori, che temevano che potessimo rompere o rubare qualcosa (il laboratorio era pieno di strumenti), anche perché uno di loro ci accompagnava quasi sempre.

     In pratica, già dopo qualche giorno avevamo le chiavi del locale e nessuno ci controllava più.

 

Valda
Le storiche Caramelle Valda: i prismi di vetro Flint non erano poi molto diversi da queste!

Avvisto le mie "prede"

     Curiosando nel laboratorio durante qualche momento di pausa, mi ero accorto che in un cassetto erano custoditi dei campioni di "vetro Flint" ad altissimo indice di rifrazione, a forma di prisma (o meglio, di "caramelle Valda", visto che forma, dimensioni e colori ricordavano quelle storiche caramelle…). Avendo studiato qualcosa in proposito, sapevo che indici di rifrazione alti accentuano l'angolo di rifrazione della luce, e che quei campioni… costavano moltissimo, avendo caratteristiche fuori dal comune. Così, vedendo che non eravamo controllati e che le "caramelle" erano piccolissime, architettai un rischioso colpo: non visto, avrei "prelevato" i prismi, me li sarei portati a casa ad Imperia per fotografarli nel weekend, per poi restituire subito dopo quel prestito "involontario".

Igor

    Sapendo che avrei potuto passare brutti momenti se mi avessero scoperto, resistetti alla tentazione di spifferare qualcosa ai miei due compagni della tesina (non l'ho mai raccontato a nessuno finora) e preparai il prelievo.

     In realtà fu facile, nessuno pensava a quei piccoli vetrini, di cui forse solo io mi ero accorto: bastò metterseli in tasca e... far finta di nulla ("Say nothing. Act casual", come il gobbo aiutante Igor, in una scena di Frankenstein Juniorsuggerisce alla fidanzata del suo padrone, mentre è lui stesso a corteggiarla goffamente, e lei invece lo guarda con ribrezzo).

 

TDSotM
Il celebre disegno del prisma, sulla copertina di The Dark Side of the Moon

Il "set" a casa

    In realtà, naturalmente, non avevo architettato quel rischioso prestito per fotografare quei piccoli prismi di vetro flint, ma per fotografarne l'effetto su un fascio di luce bianca che li avesse attraversati: la copertina del famosissimo disco "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd, che conoscevo a memoria, spiega perfettamente cosa speravo di riprodurre… sì, ma come? Non avevo nulla che potesse assomigliare ad un laboratorio di ottica, in casa, ma possedevo eccome l'arte dell'arrangiarsi:

  • innanzitutto avevo bisogno di un laboratorio dove potessi agire senza troppa pubblicità nemmeno fra i miei parenti: camera mia, a tarda serata, ne era un perfetto sostituto: potevo trafficare sulla scrivania, avevo tutto il buio che volevo (bastava spegnere la luce), ed a quell'ora era ben difficile che i miei entrassero a farmi domande scomode su cosa stessi combinando

  • poi dovevo "inventarmi" la sorgente di luce, che doveva essere bianca e potente. Una ce l'avevo: facendo quasi esclusivamente diapositive, possedevo ovviamente anche il proiettore, che aveva una forte lampada alogena dalla luce intensa e bianchissima, ed un obiettivo regolabile per focalizzarla, perfetto!

flint
La mia idea iniziale, che dovetti però modificare "in corsa" perché irrealizzabile a casa
  • quindi ci voleva un surrogato del banco ottico: nel vero laboratorio c'erano molti strumenti, qui nessuno… ma oramai là avevo già fatto un po' di esperienza e sapevo cosa mi sarebbe servito: un "filtro spaziale" (quello vero era un disco con una sottile lamina d'acciaio, con al centro un foro microscopico che lasciava passare, del già sottile raggio laser, solo la parte centrale, più pura). Lo scopo era quello di inviare sui piccoli prismi solo una sottile lama di luce, per poterne vedere la deviazione ad opera dello speciale vetro ad alto indice di rifrazione. Rimediai facendo un foro di circa un centimetro nel fianco di una scatola da scarpe, posizionandoci i prismi (uno alla volta) all'interno, in linea col foro. 

  • il "sensore" era ovviamente la mia reflex, che dovetti quindi posizionare non sopra la scena, ma a valle del prisma illuminato, per far sì che potesse catturare quei meravigliosi colori. I prismi, infatti, funzionavano egregiamente, trasformando la lama bianca in una lunga striscia di colori puri che si fondevano uno nell'altro (non in un vero arcobaleno, perché la luce dell'alogena era solo parzialmente "bianca", e quello che vedevo espandersi era il suo spettro luminoso, diverso dall'arcobaleno che è invece generato dallo spettro della luce solare). Non era certo il caso di farseli scappare!

 

Le riprese fotografiche

     Di questa parte ricordo ben poco: non so più dire se avessi usato i tubi di prolunga, né se mi fossi limitato al solo obiettivo standard da 50mm (ma forse allora avevo solo quello…). So solo che non serviva mettere a fuoco (in pratica riprendevo un'area colorata in modo sfumato), e che usai una pellicola invertente per diapositive, un po' perché quei colori sarebbero stati esaltati nella proiezione su uno schermo luminoso, e poi perché mi avevano detto che venivano sviluppate senza introdurre arbitrarie "correzioni" ai parametri di ripresa, diversamente dalle pellicole a colori, dove un sofisticato apparecchio smorzava tutti i colori troppo forti, nell'ipotesi (solitamente corretta…) che questi fossero errori dovuti all'imperizia dei dilettanti, che infatti erano ben felici di vedersi restituire fotografie "decenti".

     Naturalmente, non si potevano vedere i risultati ottenuti se non a sviluppo effettuato (cosa allora normale), non prima di un paio di giorni dopo, per cui la possibilità introdotta dal digitale di rivedere immediatamente lo scatto e rifarlo se insoddisfacente era inesistente. Quindi si scattava "alla cieca", sperando che la foto fosse "venuta" senza di fatto poterla più correggere (come nel mio caso, in cui dovevo rimettere al più presto i prismi al loro posto). Questo, unito al fatto che per quelle immagini l'esposizione era tutta da indovinare, rendeva l'esito dell'intera l'operazione piuttosto aleatorio. Probabilmente avrò sottoesposto di 1/3 di stop rispetto al valore dell'esposimetro per avere i colori più saturi, cosa che facevo abitualmente con le diapositive (un "pre-processing" minimale in tempi in cui, una volta scattata una fotografia, non c'era più alcuna possibilità di modificarla...)

Pianificata Realizzata
 L'idea pianificata inizialmente, che non fu possibile mettere in pratica a casa: il resoconto di un esperimento scientifico Lo schema che invece ho usato per le foto effettivamente realizzate, decisamente più appariscenti ed "artistiche" 

 

     Non ricordo neppure se fotografai zone diverse di uno stesso spettro, o di diversi spettri ottenuti cambiando i vari prismi che avevo a disposizione (pochi, comunque, forse 4 o 5), forse entrambe le cose. Vedendo le fotografie sopravvissute agli anni, direi che avevo fatto svariate prove, però. So che dovetti fare una modifica al "progetto": facendo qualche prova mi accorsi che fotografare raggio e prisma "da sopra" (come nel disco dei Pink Floyd) non avrebbe reso bene l'idea, mentre invece i colori che si generavano dall'aprirsi del fascio di luce bianca erano puri, intensi e bellissimi (l'angolo di deviazione dipende dalla frequenza, e quindi dal colore delle varie componenti della mia luce bianca, che separandosi divenivano quindi evidenti), quindi decisi di riprendere direttamente quelli.
 

 

I risultati

     Quelle che seguono sono le poche fotografie sopravvissute dopo quasi quarant'anni (penso fossero quelle migliori). Le ho digitalizzate tempo fa, acquisendole con il mio scanner Epson da 2400 DPI. I colori sono quelli originali, allora non c'era alcun tipo di post processing. I risultati sono più simili ad un'opera astratta di arte contemporanea che a qualcosa di scientifico, ma era proprio questo quello che mi interessava ottenere (per la parte tecnica bastava ed avanzava il lavoro al Poli...). Da allora, quasi nessuno le ha mai viste, anche perché è un po' lungo spiegare come sono state ottenute: il momento di farlo è arrivato solo adesso.

colore1 colore2 colore3
     
colore4 colore5 colore6

  

     Ed il "prelievo clandestino"? È finito bene: appena tornato a Torino, alla prima visita in laboratorio ho rimesso i prismi nel loro cassetto: nessuno si era accorto di nulla, nemmeno i miei compagni, a cui non dissi niente per non coinvolgerli in qualcosa che mi sembrava potesse avere pericolose conseguenze.

 

puffo
Ecco come si presentava, all'incirca, il nostro soggetto: un puffetto illuminato da una forte luce rossa! 

PS: i nostri ologrammi

     Gli ologrammi? Non li ho mai avuti: allora non avevo potuto né tenermeli né farne una copia (impossibile: erano lastrine di vetro con un'emulsione fotografica ad altissima definizione, che erano costate parecchio - specialmente, per noi, nel tempo necessario a reperirle ed averle a disposizione - e soprattutto che necessitavano di un altro laser per visualizzare gli ologrammi). Avrei dovuto tentare di fotografare le immagini tridimensionali ottenute, ma nessuno di noi ci aveva pensato, purtroppo. Sarebbe comunque stato ben complicato, essendo visibili solo in un ambiente quasi completamente al buio, ed essendo... rossi!

     Dato che era necessario scegliere come soggetto da riprendere qualcosa che fosse piuttosto piccolo (l'area illuminabile, e quindi le dimensioni del soggetto, dipendevano dalla potenza del laser, che nel nostro caso era piuttosto limitata) dovevamo scegliere un oggetto che non superasse gli 8-10 cm. Nel primo esperimento utilizzammo un'automobilina, ma i suoi fari, come piccole gemme di plastica, riflettevano e concentravano sulla lastra impressionabile la luce laser, in pratica quasi "bruciandola" in quei punti. Fummo quindi costretti a ripiegare su un soggetto meno riflettente e più uniforme, ed il docente che ci aiutava scovò fra i giocattoli del figlio il pupazzetto di un puffo di plastica di circa 5 cm, che si rivelò perfetto per le nostre necessità.

     Inoltre, delle due immagini olografiche che si formano (una virtuale, al di là della lastra contenente l'ologramma, ed una reale, al di qua), noi vedevamo perfettamente quella virtuale, molto luminosa e praticamente identica e sovrapposta al soggetto ritratto (fu un'esperienza molto particolare togliere il puffetto e... vederlo rimanere al suo posto, anche se sapevamo che quella era "solo" la sua immagine olografica!). L'immagine olografica reale, invece, siamo riusciti a distinguerla solo poche volte: era molto più grande del soggetto ritratto, ma anche molto poco luminosa, e fotografarla sarebbe stato davvero problematico. Rimaneva comunque un po' inquietante, visto che sembrava "galleggiare" nell'aria senza capire da dove venisse proiettata, e si poteva attraversare con la mano, proprio come... un fantasma!


IvanEditor

 

      (Ivan – 08/04/2021 - aggiornato 16/04/2021)


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